Vitigni autoctoni recuperati, nuova linfa alla viticoltura laziale

Danilo Scenna e una vite centenaria di Pamparano
Danilo Scenna, giovane e motivato viticoltore biodinamico di Pescosolido (Fr), riporta in produzione vigneti abbandonati con viti franche di piede. Scoprendo, grazie alla collaborazione con istituti di ricerca, un tesoro di tipicità: autoctoni bianchi come Maturano e Pampanaro e rossi (Lecinaro e uva Giulia) da cui oggi produce fra le 15 e le 18mila bottiglie all’anno

Danilo Scenna, trentaquattrenne imprenditore agricolo, e delegato regionale di Giovani Impresa Lazio, da sempre legato alle tradizioni del proprio territorio di origine, nel 2012 ha costituito l’azienda agricola D.S. bio, situata a Pescosolido (Fr), sul versante laziale del parco nazionale Abruzzo Lazio e Molise.

L’azienda, che si trova a 630 metri di altitudine, segue i dettami dell’agricoltura biodinamica e alleva vitigni autoctoni della Valle di Comino e della Media Valle del Liri quali Maturano e Pampanaro (bianchi); Lecinaro e uva Giulia (rossi).

Per assicurarne il recupero Scenna ha riportato in produzione alcuni impianti con viti centenarie che erano state negli anni abbandonate.

Un impegno reso possibile grazie a proficue sinergie con istituti di ricerca, enti pubblici e altri viticoltori della zona.

La D.S. bio produce tra le 15 alle 18mila bottiglie annue e adotta in vigna la tecnica di allevamento ad alberata con viti maritate all’ulivo, da sempre utilizzata su queste montagne per ottimizzare al massimo il poco terreno coltivabile che non permetteva la monocoltura.

Articolo pubblicato su Terra e Vita 36/2021

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Vigneto storico recuperato da Danilo Scenna nell'azienda D.S. bio sui rilievi appenninici tra Lazio e Abruzzo

Viti franche di piede

Quali sono i vantaggi di un allevamento ad alberata?

Danilo Scenna

Storicamente – risponde Scenna -  in molte piccole località dell’Appennino centro meridionale si coltivava la vite maritandola ad altre specie arboree: dall’ulivo, all’olmo, ai pioppi e alberi di fico. Le piante si sviluppavano in altezza, ed erano così più esposte alla luce e alla ventilazione: condizioni pedoclimatiche che riducono molto l’incidenza delle patologie fungine.

Il mio progetto inizia col recupero di alcuni vigneti centenari coltivati con questa metodologia, con piante, dunque, a piede franco (pre fillossera) di estimabile valore genetico, ampelografico, nonché storico e culturale strettamente contestualizzato al territorio di appartenenza.

La gestione di questa forma di allevamento è sicuramente più complessa rispetto alla forma classica a spalliera per quanto concerne la raccolta e la potatura (le piante fruttificano a 2,50/3,00 metri di altezza); mentre per i trattamenti fitosanitari e tutte le altre operazioni meccanizzabili, le lavorazioni sono per certi aspetti più semplici. Questo perché ad ogni tutore ci sono tre/quattro viti, molte volte propagate per propaggine.

Vite appoggiata al tutore di olivo presso l'azienda D.S.Bio

La densità di impianto per ettaro è molto più bassa rispetto ad un impianto a spalliera: in media ci sono 1.200/1.500 ceppi per ettaro. Quello che ho riscontrato in azienda, soprattutto nelle piante a piede franco (di Maturano, Trebbiano, Sangiovese, Lecinaro e Uva Giulia) è che sono molto più produttive, e nonostante producano molti chili di uva, la qualità, sia in termini di zuccheri che di acidità, non ne risente.

Un’agricoltura biodinamica “concreta”

Quali strategie di difesa delle piante utilizzate?

Ho deciso di coltivare e vinificare seguendo l’approccio agronomico biodinamico per diversi motivi. Il primo su tutti è perché il contesto in cui mi trovo è ricco di biodiversità (sia vegetale che animale), è un territorio del tutto incontaminato, dove non si è mai fatta agricoltura a livello professionale. Fare agricoltura biologica e biodinamica è stata quindi quasi una scelta obbligata. Le condizioni pedoclimatiche sono molto favorevoli alla coltivazione della vite per cui è possibile produrre riducendo sostanzialmente l’utilizzo di prodotti fitosanitari.

I nuovi impianti eseguiti sempre con la logica delle Piantate

Il mio concetto di agricoltura biodinamica è molto concreto e poco filosofico. Cerco essenzialmente di incrementare e salvaguardare la vitalità del suolo sul quale coltivo, provando ad essere il meno invasivo possibile. Le tecniche sono molto semplici: semina di sovesci, concimazioni organiche con compost autoprodotto (essendo un’azienda a ciclo chiuso, oltre alla produzione abbiamo anche un allevamento di cavalli), lavorazioni superficiali volte a ossigenare il terreno, impiego di preparati quali il cornoletame e cornosilce come catalizzatore di fotosintesi. L’impiego del rame è molto inferiore rispetto alle soglie indicate dal Regolamento Ue relativo all’agricoltura biologica e al disciplinare Demeter. Per ridurre la quantità di rame uso corroboranti naturali, olio essenziale di arancio dolce, propoli, zeolite e altre sostanze attive e strumenti di controllo volte a combattere le malattie fungine.

Agricoltura biodinamica e nuove tecnologie. È un binomio possibile?

Vite franca centenaria aggrappata al tutore

La tecnologia è fondamentale per produrre bene, ottimizzando sia le risorse naturali (acqua su tutte) sia quelle economiche. E’ un grande errore pensare che chi coltiva seguendo i principi dell’agricoltura biodinamica lo faccia solo con metodi tradizionali. C’è bisogno dei mezzi tecnologici che la scienza ci mette a disposizione per ridurre sempre di più il margine di errore. Stazioni meteorologiche, agricoltura di precisione e una serie di mezzi tecnici di nuova concezione sono utilizzati quotidianamente in campo per individuare i nuovi appezzamenti e per la gestione successiva degli impianti.

Questo vale anche per la vinificazione e non solo per la coltivazione. In cantina ci avvantaggiamo di tecnologie di ultima generazione per gestire le fermentazioni e l’affinamento dei vini, come pure per effettuare l’imbottigliamento. Proprio perché non aggiungiamo sostanze ai nostri vini, eccetto un piccolo quantitativo di metabisolfito di potassio, il monitoraggio e la prevenzione sono fondamentali, giacché dopo non si può più intervenire con l’aggiunta di prodotti chimici.

«Serve un consorzio di tutela»

Vendemmia di uva Lecinaro

Quali sono i tuoi progetti futuri? E in azienda su cosa punterai?

Sono impegnato costantemente nella ricerca sui vitigni autoctoni. Dopo il recupero nel corso degli anni di alcune varietà, il prossimo step è individuare le virosi presenti e procedere al risanamento dei vari biotipi. Per fare questo abbiamo bisogno di fondi pubblici, soprattutto per effettuare test sanitari previsti dai vari protocolli di selezione clonale (molto dispendiosi). Inoltre bisognerebbe puntare sulla cooperazione tra le pmi agricole del territorio per cercare di emergere su mercati internazionali. Un passaggio importante, a mio avviso, è la costituzione di un consorzio di promozione e tutela, e quindi la stesura o modifica dei disciplinari di produzione esistenti.

Per la mia azienda l’obiettivo è incrementare la produzione, nonostante il territorio non permetta grandi superfici vitate, soprattutto in ampi appezzamenti. Mi piacerebbe molto condividere il know how acquisito in questi anni e coinvolgere giovani produttori nell’investire in un settore che può rappresentare un volano di crescita per l’intera economia locale.

Vitigni autoctoni recuperati, nuova linfa alla viticoltura laziale - Ultima modifica: 2021-11-25T13:22:21+01:00 da Lorenzo Tosi

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